La cappella nasce nel 1556, nel momento di massimo splendore della famiglia Carafa, per volontà di Giovan Battista I, terzo conte di Montecalvo. La sua costruzione segue di un anno la salita al papato di Giovan Pietro Carafa, Paolo IV, figlio di Giovann’ Antonio di Diomede conte di Maddaloni. Il rapporto di parentela tra il ramo di Montecalvo e quello di Maddaloni parte dai fratelli Antonio Carafa, detto Malizia, padre di Diomede e nonno di Paolo IV, e Tommaso Carafa, avo diretto dei Conti di Montecalvo. Il monumento fu posizionato al centro della navata minore destra della tardogotica chiesa collegiata di Santa Maria Maggiore, divenuta dell’Assunta in occasione dell’ampliamento del capitolo concesso nel 1672 da papa Clemente X su richiesta del duca di Montecalvo Carlo Pignatelli. Esso rappresentò il primo allargamento della navata che solo dopo il decreto del 1693, emanato nella stessa chiesa dal cardinale Vincenzo Maria Orsini, arcivescovo di Benevento e papa, col nome di Benedetto XIII, dal 1724 al 1730, vide l’erezione delle altre due cappelle laterali, attigue alla Carafa e con essa comunicanti dopo che, in esecuzione dello stesso decreto, furono demolite le pareti degli archi laterali interni.La Cappella Carafa non nasce come luogo sepolcrale, piuttosto come sorta di ringraziamento, oltre che di ostentazione, sia per il prestigio raggiunto in quel periodo dalla famiglia, sia per la personale ascesa del terzo conte di Montecalvo. Non conosciamo, al momento, il nome dell’architetto autore del progetto. E’ certo che ci troviamo di fronte ad uno straordinario esempio di architettura rinascimentale il quale, insieme alle eccezionali novità di interesse religioso e artistico che, dalla nascita della Parrocchia San Pompilio e dal ritrovamento della sua Mamma Bella, stanno interessando la nostra comunità, inserirà Montecalvo in un vero e proprio percorso turistico-culturale.

Nell’attesa di conoscere il nome dell’autore della Cappella Carafa di Montecalvo, che non potrà essere, tanto per il prestigio che all’epoca aveva la famiglia comitale quanto, e soprattutto, per la sua oggettiva, alta valenza artistica, che un grande del Rinascimento Italiano, dedichiamo al monumento la nostra attenzione. Una magnifica visione d’insieme, dalla navata minore sinistra della chiesa, ci dà immediatamente l’idea della sapiente mano del progettista: l’inserimento rinascimentale nell’impianto gotico del tempio esprime un’armonia di mirabile effetto. E l’armonia, delle linee come delle proporzioni, del cesello come dei concetti, come vedremo geometricamente espressi, costituisce la preziosa caratteristica del monumento. L’impianto è tipico dell’epoca di esecuzione: un arco trionfale romano, carico, però, del bagaglio simbolico e artistico acquisto dal medioevo in poi. Ventuno formelle, due alla base frontale dell’arco d’ingresso, quindici intorno ad esso ricorrenti e quattro all’interno, riproducono le insegne araldiche della famiglia celebrandone i fasti e rappresentando, spesso, delle vere e proprie chiavi di lettura. I quattro quarti nobili del committente, scolpiti sui basamenti si allargano, proiettandosi in singole rappresentazioni non a caso collocate in scudi ovali, all’interno della cappella, quasi incoronando le quattro nicchie che occupano i lati minori della pianta ottagonale intervallandosi, a loro volta, con le quattro finestre superiori. E’ un primo assaggio dell’armonica rappresentazione dei simboli che offrono, quando è possibile, una doppia lettura: una potremmo dire araldico-letterale, un’altra, allegorica. La prima ferma nel tempo il momento storico-familiare di Giovan Battista Carafa, che alla morte del padre, avvenuta il 26 dicembre del 1555 aveva avuto l’investitura della contea montecalvese, la seconda accompagna in una sorta di racconto interpretativo che attinge, a sua volta, allo spirito celebrativo nobiliare, che nel blasone trova la massima esaltazione delle virtù cavalleresche, lo snodarsi delle geometrie rinascimentali nell’esplicazione di alti concetti teologici. I quattro cantoni dello scudo posto ai piedi dell’arco riproducono, quindi, le alleanze del committente: al primo le tre fasce dei Carafa di Montecalvo che nella blasonatura araldica sono d’argento in campo rosso; al secondo Orsini, in rappresentanza della nonna paterna Francesca dei conti di Nola: (la descrizione tiene conto dei colori che ovviamente mancano nella nostra rappresentazione) bandato d’argento e di rosso; col capo del primo, caricato di una rosa del secondo, e sostenuto da una trangia cucita d’oro; al terzo Saraceno, in rappresentanza di Camilla, la nonna materna: d’argento alla testa di Moro al naturale, cinta d’azzurro, con un giglio d’oro sulla fronte; al quarto Carafa, in rappresentanza di Berlingieri dei duchi di Nocera, il nonno materno: di rosso a tre fasce d’argento. La pianta del monumento, ottagonale, rappresenta, allo stesso tempo, l’idea progettuale, il punto d’arrivo e la sintesi delle forme, come dei concetti in esse sottesi e in esse dai simboli espressi. Nella simbologia antica e medioevale, ripresa, appunto nelle linee architettoniche rinascimentali, l’ottagono è la quadratura del cerchio, ossia la fusione tra il Cielo, rappresentato dal cerchio, e la Terra, rappresentata dal quadrato. La priorità, data nel Rinascimento, alla purezza estetica ottenuta con l’eleganza armonica delle geometrie, affida al patrimonio simbolico un ruolo esclusivamente ornamentale svuotando, spesso, di significato, quel mondo di simboli attraverso il quale l’Uomo del Medioevo aveva espresso il suo omaggio a Dio inserendo quel mondo in un’arte atemporale, ferma nel silenzio della contemplazione. Nel nostro caso, invece, e questa ritengo essere la peculiarità della Cappella Carafa di Montecalvo, forse il suo segreto, o uno dei segreti da essa celati, non solo i simboli, come vedremo, conservano la loro carica intrinseca, ma originano, addirittura, quelle forme. La stadera, una pelle tirata, il libro, il ramo di spine. La proiezione incrociata di tali simboli, omologhi e alternati nel quadrato formato dalla distanza intercorrente tra i basamenti e le imposte dell’arco origina le geometrie caratterizzanti la tradizione simbolico-architettonica medioevale e rinascimentale: il quadrato, il cerchio, l’ottagono, la stella. Grazie ai suoi quattro lati il quadrato rappresenta il cosmo: i quattro pilastri d’angolo i quattro elementi., l’universo creato, ma non solo. Essendo esso la perfezione della sfera su un piano terrestre, rappresenta anche l’uomo perfetto, quindi Cristo che, per questo motivo è, nella tradizione simbolico-cristiana, il quadrato per eccellenza. Ciascuna delle otto formelle, quattro per lato, raffiguranti due stadere, due pelli, due libri e due rami spinosi è inserita in cornice quadrata. Il cerchio in esso inscrivibile rappresenta l’eternità, quindi la divinità. Le due figure insieme, Dio che si rivela. La loro fusione dà vita all’ottagono che risulta essere la figura intermedia fra il quadrato e il cerchio divenendo, così, porta e simbolo di passaggio e rigenerazione in cui si ha l’equilibrio delle forze spirituali e materiali. Il numero otto rappresenta, similmente, l’Infinito, essendo formato da due cerchi intercomunicanti senza soluzione di continuità. Un veloce raffronto fra la pelle araldica dei Carafa di Maddaloni nell’omonimo celebre palazzo napoletano, con quella della nostra cappella rivela immediatamente la volontà esplicita del nostro progettista di inserire un perfetto ottagono in un perfetto cerchio. La pelle tirata, che i Carafa di Maddaloni, a differenza del progettista della Cappella Carafa di Montecalvo non posero in una ottagonale estensione ricorda, con ogni probabilità l’incarico di razionale del Regno conferito dal re Ferdinando I d’Aragona al conte Diomede Carafa che chiamò quale suo luogotenente il nipote Alberico, divenuto, poi, primo duca di Ariano. Contemporaneamente potrebbe rappresentare, però, la pelle di montone emblema del Vello d’Oro al cui cavalierato appartennero sette avi dei conti di Maddaloni e di Montecalvo, oltre che dei duchi di Ariano. Il mito di Giasone offrì diversi spunti artistici nel Rinascimento e se ad esso si ispira l’allegoria dell’arme qui inserita, rappresenterebbe la riconquista del regno perduto, quindi l’acquisizione della Grazia per mezzo della redenzione di Cristo. Il concetto è sottolineato dalla precisa volontà di raffigurare il perfetto ottagono nel perfetto cerchio, raffigurazione già eseguita per il sepolcro del cardinale Diomede Carafa, cugino di Giovan Battista, eretto nel duomo di Ariano, cosa non avvenuta, come abbiamo visto nel Palazzo Carafa di Maddaloni in Napoli, ove i lati della pelle sono undici. Nei casi di Montecalvo e di Ariano, è evidente la volontà di esprimere un concetto teologico con uno degli stemmi di famiglia: il cardinale Diomede lo fa apporre su quello che riteneva dover essere il suo sepolcro, luogo sacro, quindi, indicante il suo passaggio alla vita eterna; il conte di Montecalvo nella Cappella del Santissimo Salvatore, luogo celebrativo del passaggio all’Eterno di tutta l’Umanità che riconquista, grazie al cerchio che si fa quadrato, e quindi ottagono, il regno della grazia, perduto con il peccato. Ancora una volta, l’elemento araldico diviene occasione voluta per l’esplicazione del concetto espresso dall’intero complesso architettonico: la fusione tra Cielo e Terra che si realizza, nella visione cristiana, con l’Incarnazione della divinità nel seno di una Donna. La stella è la sede dell’unione. Anche in questo caso la sua raffigurazione sorge dalle proiezioni incociate degli otto stemmi omologhi e alternati dei piedritti. In sintesi: Dio si fa Carne e si rivela. Ed ecco la scritta della trabeazione: ECCE SALVATOR MUNDI che si colloca, a sua volta, sul vertice del triangolo, simbolo della Trinità, ottenuto con la proiezione dello stemma Carafa, ripetuto tre volte nell’arco, in corrispondenza dei rispettivi vertici dello stesso triangolo. Dio si rivela, dunque, e si manifesta come il Salvatore che si cala al centro della stella, perpendicolare rispetto alla scritta Salvator sul vertice del Triangolo. La Stella è Maria, la Donna per eccellenza, senza macchia, concepita dallo Spirito Santo, rappresentato nel triangolo. La cappella è dedicata, infatti, al Santissimo Salvatore e alla Beata Vergine Maria, oltre che ai santi Giovanni Battista e Geronimo in onore dei protettori personali del committente Giovan Battista e della moglie Geronima. Il Verbo, che si fa carne, è la sua stessa Parola , espressa nel nostro quadrato dal Libro che, chiuso e affibbiato, si differenzia, per questo, da quello presente nella Cappella del cardinale Oliviero Carafa nel duomo di Napoli, eretta prima del Concilio di Trento, ove, invece, è rappresentato aperto. L’antica legge divina dei rotoli ebraici si incarna, con Cristo, nel quadrato del libro: il Verbo si manifesta ed è la Legge. Andate e predicate la Buona Novella: è il crisma che rende autentico, veritiero ed esclusivo il magistero apostolico, messo in discussione proprio negli anni della nostra costruzione, dalle proteste luterane i cui effetti cominciavano a sottrarre al magistero romano vaste fasce della cristianità europea. Ricordo che Sigismondo Carafa, primo conte di Montecalvo e nonno del nostro committente, aveva chiamato a Montecalvo il beato Felice da Corsano, dotto in lettere e teologia, già studente nel convento di San Giovanni a Carbonara in Napoli, agostiniano contemporaneo di Lutero, riformatore pretridentino della Chiesa Cattolica, affidandogli la cura dell’antico ospedale di santa Caterina, già accudito dai Cavalieri di Malta. Stessa sensibilità avevano mostrato i Carafa di Ariano e di lì a poco dimostreranno quelli di Baselice, chiamando, nelle rispettive comunità, i monaci riformati del beato Felice. Il cardinale Giovan Pietro Carafa, vescovo di Chieti, aveva fondato, con San Gaetano Tiene, l’Ordine dei Teatini dando vita ad una severa riforma della Chiesa. I temi politici e teologici erano dunque sentiti presso le corti feudali dei Carafa alla cui ascesa nel prestigio del Regno non poco avevano contribuito i numerosi prelati della famiglia. Nel 1556 regnava Paolo IV Carafa, cugino del conte di Montecalvo. Forse il pontefice più intransigente nella storia della chiesa nei confronti dei protestanti e degli eretici in genere. Sua è la bolla Cum Nimis Absurdum, emanata qualche mese prima della costruzione del nostro monumento, che istituisce i ghetti ebraici. Nel 1559, pubblicherà l’opera Index librorum prohibitorum, un elenco in cui saranno inserite anche tutte le bibbie pubblicate dai protestanti e ciò, appunto, allo scopo di salvaguardare l’ortodossia cattolica. Durante il suo pontificato non sarà celebrata alcuna sessione del Concilio di Trento. Arcivescovo di Brindisi, nel 1520, aveva preso parte alla stesura della bolla Exurge Domine con la quale Leone X scomunicava Lutero, se allo scadere di sessanta giorni non avesse ritrattato le proposizioni condannate. E proprio nel corso di quei sessanta giorni, precisamente l’11 luglio del 1520, con la bolla Esponi Nobis Nuper, lo stesso pontefice Leone X, in risposta ad una richiesta inoltratagli da Sigismondo Carafa, nonno del nostro committente, concede al conte di Montecalvo di costruire, in Montecalvo, un convento francescano sottolineando la difficile situazione che la Chiesa stava vivendo in quei giorni. Il libro chiuso indica, secondo la scienza araldica, la trasmissione orale della Sapienza, direttamente dalla bocca del Maestro. Eseguito, nella nostra cappella, chiuso e affibbiato, a consumazione avvenuta dello scisma d’Occidente, diviene un chiaro e non casuale riferimento al Magistero Papale, la Cattedra di Pietro, da Cristo istituita per la retta interpretazione dello stesso Libro e ciò in contrapposizione alle tesi luterane. La Parola va difesa nella purezza e nell’autenticità del messaggio, ed ecco che un altro simbolo di Casa Carafa, abbondantemente utilizzato in tutte le rappresentazioni blasoniche familiari, acquista, nella Cappella di Montecalvo, un significato che assorbe quello originario di giustizia ed estrinseca, accanto ad esso, la volontà e la necessità di difendere l’ortodossia Evangelica, se necessario, anche con la spada: di qui le stadere incrociate a mò di spadino con le punte rivolte verso il basso. Il raffronto fra i simboli napoletani e quelli di Montecalvo ci mostra le varianti nel loro significato. Dirimpettaia della Stadera, la formella della Spina, posta, con quella, alla base del quadrato, indica la radice della famiglia Carafa rappresentando il ramo primogenito. La lettura allegorica della formella suggerisce il significato della Spina segno della Corona dolorosa di Cristo, e della sofferenza quale imprescindibile tributo personale al riscatto dal peccato. Tale emblema, infatti come vedremo, è assente nella parte superiore dell’arco ove il cerchio, nel suo significato di Mondo Supremo ed Eterno indica il Regno della Gioia Infinita. E il cerchio è la figura simbolo di tutta parte della cappella che si eleva al di sopra del quadrato, ad iniziare dalla forma degli scudi. In alto è l’origine del nostro ottagono. Per scorgerla occorre alzare lo sguardo, innalzarci: il Padre Nostro, che è nei Cieli, ha mandato suo figlio a Salvarci: IN QUESTO SACRO LUOGO VENITE FIGLI DEVOTI, CHIEDETE E RICEVERETE NELLA FEDE: è, questa, l’esortazione, dal senso letterale, inscritta nel Cerchio del primo ottagono che ci guida alla cupola della cappella, purtroppo oggi non più esistente. Ancora più su, nel Cerchio del secondo ottagono il senso allegorico è espresso da un passo del Deuteronomio:

NON C’E’ UN DIO PARI AL DIO DELLA GIUSTIZIA

CHE CAVALCA I CIELI PER SOCCORRERTI.

IL SUO SPLENDORE SOVRASTA LE NUBI.

LA SUA ABITAZIONE E’ IN ALTO

E IN BASSO LA SUA FORZA

PER SEMPRE

Per sempre: Dio non lascerà più l’Uomo, il Cerchio non lascerà il Quadrato, non potrà più farlo perché è diventato, esso stesso, Quadrato. L’Ottagono, sarà sempre il simbolo dell’Unione. Potremmo ipotizzare una terza scritta, perduta, nel cerchio della cupola, che secondo i canoni avrebbe dovuto avere un senso mistico. L’offerta della famiglia Carafa al Santissimo Salvatore alla Madre Beata Vergine Maria e ai santi Giovanni Battista e Geronimo, protettori personali di Giovan Battista e sua moglie Geronima Ayerbo d’Aragona è celebrata dagli scudi ovali posti sotto le iscrizioni e la di sopra delle nicchie interne. Qui, come al di sopra dell’imposta dell’arco, si riproducono gli stemmi dei basamenti con l’unica variante dell’arme di Casa AYerbo d’Aragona: di alleanza all’interno e da solo nel semicerchio dell’arco: alla fascia d’oro caricata di tre scudi d’argento, mentre nell’alleanza Carafa i quattro pali rossi d’Aragona circondati da nove scudetti d’argento. Lo scudo circolare, in araldica prerogativa degli ecclesiastici e delle donne, utilizzato nel supero della cappella, come per la pregevole acquasantiera, recante anch’essa lo stemma Carafa in forma ovale, unisce, all’esigenza estetica, l’omaggio alle donne di Casa. E l’acquasantiera, sintesi degli oceani, recante l’acqua che redime, è sormontata dalla conchiglia, simbolo delle crociate, ma anche di Venere che passa alla Donna concepita Santa e Corredentrice dell’Umanità dalla Mente di Dio. Il cherubino, posto sui capitelli compositi nello stile ionico-corinzio, è a guardia del Mondo Supero raffigurato, a sua volta, nell’Albero della Vita, nel nostro caso fruttifero, collocato nell’arco al di sotto della trabeazione. Tra i suoi frutti, i segni dell’Abbondanza, dodici rose araldiche, sei per parte, e due rose al naturale, indicano il posto d’onore e il sigillo della Salvezza: Maria, Madre del cerchio e madre del quadrato: la Stella, quindi, al cui centro, ritorna al culto la statua di Mamma Bella dell’Abbondanza. Ancora ai simboli è affidata ai posteri la memoria dell’evento. Gli stemmi dei due prelati che, in una sorta di disegno provvidenziale, hanno legato il loro nome alla Sacra Immagine: mons. Alessandro Di Sangro che ne autorizzò il culto nel 1622 e S.E. mons. Serafino Sprovieri che, a distanza di 380 anni, ci restituisce il tesoro più caro tra gli affetti terreni di San Pompilio Maria Pirrotti. Cosi come è sorprendente il notare che la lettura araldico-letterale delle rose e dei segni dell’Abbondanza nel frontone dell’arco dia il nome Madonna dell’Abbondanza, altrettanto singolare è che lo stemma del nostro arcivescovo, contenente simboli analoghi a quelli rappresentati nell’icona lignea, e tra questi la stella e la croce, venga apposto ai suoi piedi a cinquant’anni dalla sua ordinazione sacerdotale e nel 25° anniversario della sua ordinazione episcopale. Al di là di ogni altra considerazione, tale concomitanza offre, alla nostra comunità, l’occasione di esprimere a S.E. sensi di viva gratitudine.

Articolo ripreso da Irpino.it pubblicato il 07 dicembre 2023

Autore G.B.M. Cavalletti

Relazione presentazione  Marzo 2003

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